Cosa rimane della didattica dopo l’intelligenza artificiale?
Di Angela Spinelli
Ricercatrice in Didattica generale e pedagogia speciale presso l’Università di Roma Tor Vergata. Si occupa di formazione, ricerca e innovazione educativa, collaborando anche con enti pubblici e del Terzo Settore. I suoi interessi si concentrano sull’apprendimento degli adulti, le pratiche partecipative e le tecnologie didattiche. Ha pubblicato numerosi saggi e contribuisce attivamente allo sviluppo di modelli formativi nei contesti digitali.

La risposta più onesta che possiamo offrire, oggi, a chi ci chiede cosa resterà della didattica dopo l’intelligenza artificiale è semplice: non lo sappiamo. Ma, come in passato, possiamo provare a formulare ipotesi fondate.
Quando è stata inventata e poi diffusa la scrittura non sapevamo che avrebbe dato vita ad una specifica forma di sapere. Così come quando la stampa ha fatto la sua comparsa, assestando il tempo e la produzione culturale sulla linea di demarcazione del successivo sapere enciclopedico di stampo illuminista, non avevamo idea degli sviluppi.
Anche Internet ci ha messo alla prova, e continua a farlo. Ma oggi la scena è dominata da nuovi attori: i Large Language Model (LLM), forme avanzate di intelligenza artificiale linguistica con cui tutti noi – studenti compresi – dialoghiamo quotidianamente.
Sono ChatGPT, Claude, Gemini, si tratta di modelli statistici addestrati su enormi quantità di testo: capaci di comprendere e generare linguaggio naturale. Capaci di rispondere, spiegare, argomentare e riconoscere strutture e significati con sorprendente efficacia.
Sono agenti intelligenti che dialogano e nel dialogare gli studenti si affidano: li consultano, li delegano, talvolta li copiano.
O forse no? O forse assumono posture e propongono interazioni ancora poco note, da sviluppare, certo, ma già degne di attenzione? Come quando uno studente riformula una domanda generata dalla macchina, trasformandola in un’occasione di riflessione autentica.
E nella relazione educativa, questo processo che il giovane umano stabilisce con una (altrettanto giovane) intelligenza artificiale, può essere il luogo dove imparare a fare domande, a dialogare, a nutrire algoritmi maieutici di socratica memoria.
Uno scambio tra l’essere umano e la macchina
Cosa rimane, allora, della didattica dopo l’intelligenza artificiale? Rimane un processo che apre a nuove literacies, all’imparare a progettare e a fare le (giuste) domande. Rimane uno spazio di interazione, parola molto cara alla tradizione pedagogica e didattica di tutto il Novecento. Uno scambio tra l’essere umano e la macchina, in una triangolazione che, per essere virtuosa, deve veder lavorare insieme – fianco a fianco – studenti e docenti, che – ancora una volta fianco a fianco – apprendono dialogando con l’intelligenza artificiale.
L’interazione, dunque. Che si fa sodalizio relazionale fra gli umani che si interfacciano con forme di tecnologie culturali altamente sofisticate, dando vita ad un autentico processo di attenzione e sostegno alla crescita.
Umberto Eco, di fronte all’autoproduzione di contenuti che la rete permette, sollecitava i docenti dalle sue bustine di Minerva a modificare le consegne di apprendimento: non chiedete – scriveva – una relazione o una ricerca; ma – al contrario – chiedete di trovare sull’argomento X una serie di trattazioni inattendibili a disposizione su Internet e di spiegare perché sono inattendibili, alimentando la capacità critica e l’abilità di confrontarsi con le fonti, esercitando l’arte della discriminazione (Eco, 2016).
Di fronte ad una così larga diffusione dell’IA di cui siamo attoniti spettatori, dunque, rimane la necessità di modificare le pratiche di insegnamento per adattarle ad un processo culturale che – senza dubbio – è qui per rimanerci. Alimentare il senso critico è una priorità educativa, ma abbiamo necessità di trovare modi nuovi per farlo perché siamo sollecitati da processi tecnologici e culturali profondamente diversi dai precedenti.
E se questo compito sembrasse ancora poca cosa, rimane il ruolo delle pratiche educative di fungere da sentinelle rispetto alle scelte etiche e deontologiche. Resta il loro dovere di orientare le politiche verso un uso e un accesso equo alla tecnologia che disegnerà il futuro, le sue forme di cittadinanza, le sue geografie professionali, i suoi processi di esclusione o – speriamo – di inclusione.
Eco U. (2016), Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida, La nave di Teseo, Milano.